La relazione primaria
A cura di Life Strategies
Ognuno di noi è nato da una relazione e, ancora oggi, gli scienziati non sanno cosa determina nella fecondazione la scelta tra i due gameti maschile e femminile.
Le attrazioni, attivate da leggi segrete di armonie e risonanze energetiche, a loro volta determinano gli incontri tra le persone, come tra i due gameti, la cui relazione genera una nuova vita.
Nello studiare la relazione primaria madre-bambino, inizialmente gli studiosi parlavano di fusione tra corpo materno e del neonato, ma successivamente si sono accorti di come il bambino sia, già alla nascita, ben consapevole della separazione del suo corpo da quello della madre (quindi della relazione) e di quanto sia conscio, anche prima di sviluppare il linguaggio, di chi lo accudisce.
Il bambino, fornito di una consapevolezza in questa fase anche maggiore di quella dell’adulto, sa valutare la qualità della relazione e dell’attenzione ricevuta, osservando come viene trattato e considerato, lo sguardo di chi lo cura e il modo in cui viene accudito. Queste valutazioni fondano le basi della sua autostima, che da adulto potrà utilizzare come scudo protettivo per la propria sicurezza contro ingiuste svalutazioni.
Rispecchiamento ed empatia
Il bambino impara a sentire, pensare, fare, reagire, in base a quanto viene “visto”, “riconosciuto” e accettato, attraverso l’empatia esercitata dalle figure di accudimento. Ciò significa che se viene visto si vedrà; se gli viene riconosciuta una capacità, se la riconoscerà; se gli vengono riconosciuti emozioni e sentimenti, imparerà a sentirli. Il bambino si vede nello specchio delle relazioni di chi è empatico con lui, per la costruzione della propria identità.
L’empatia, dal greco εμπαθεία (empatéia), parola composta da “in”, “dentro”, e pathos, “sofferenza o sentimento”, è un “sentire dentro” ciò che sente l’altro. Nelle relazioni iniziali è un importantissimo fattore di crescita, di sviluppo dell’autonomia e della futura indipendenza dai genitori, riconosciuto come fondamentale, ancor più dell’affetto, che può essere riversato in grande intensità e quantità, ma che, senza un saldo atteggiamento empatico, può esporre la persona a futuri problemi psicologici.
Poiché l’identità si forma per rispecchiamento, se lo specchio in cui il bambino si vede è sano, integro, non offuscato, non distratto, non deformato, non giudicante, attraverso l’empatia ricevuta nelle sue relazioni sarà possibile lo sviluppo di una propria identità, con un parallelo allenamento e sviluppo di un’auto-empatia, che saprà applicare, insieme all’empatia appresa, alle sue relazioni future. Un bambino che, invece, si specchia in uno specchio scuro, deformato e deformante rischia di non vedersi e di vedere quello che non è.
Il sensore del piacere e il senso di colpa
Se il bambino a cui è stato impedito un sano rispecchiamento non riesce a vedersi, a conoscere e a soddisfare i suoi bisogni e desideri, adattandosi a soddisfare i bisogni e desideri altrui, imperniando le scelte non sul proprio piacere (come farebbe attivando il sensore del piacere) ma sul piacere degli altri, sul piacere agli altri e su doveri dettati dall’esterno di sé, finisce per escludere il vero sé stesso, costruendo una falsa personalità, la cosiddetta “personalità di sopravvivenza” e rischia di predisporsi a un’“esistenza mancata”.
Il bambino si chiede perché non viene visto e si dà questo tipo di risposta: “non valgo abbastanza per essere amato”, sviluppando un senso di colpa (il non sentirsi adeguato in qualsiasi situazione), pure in fase preverbale, e l’idea di non meritare, andando a innescare meccanismi di difesa, di evitamento (di sentimenti e di situazioni), di dipendenza (dagli altri, da attività o da sostanze), che possono sfociare in nevrosi o psicosi e di un eccessivo controllo delle emozioni che crea un circolo vizioso.
La relazione con sé stessi, con il proprio sé e l’essere
Buone relazioni con le figure di accudimento permettono alla persona di “vedersi” e di aumentare la connessione, la relazione, con sé stessi, con il proprio sé, con la propria autenticità.
Viceversa, una mancanza di empatia nelle prime relazioni crea una ferita, detta “primaria”, che disconnette la persona dalla connessione con il suo sé, rischiando di renderla dipendente dall’esterno. Lontano da ciò che è e che desidera veramente, finisce con l’accumulare nuove insoddisfazioni relazionali, che aggiungono ulteriori traumi a quelli passati.
Le relazioni contribuiscono così tanto all’espressione dell’“essere” che quelle iniziali non soddisfacenti conducono alla grande paura del non essere, del vuoto. Chi vive questo tipo di relazioni, pur di colmare quel vuoto, è costantemente esposto al rischio di relazioni di dipendenza, a qualsiasi costo.
Viceversa, una persona che non ha bisogno di dipendere dagli altri, ma “dipende” dalla parte più autentica di sé, impara a non dipendere da relazioni nocive, svalutanti e limitanti che gli vengono offerte (a volte infiocchettate e presentate, ad esempio, come amori straordinari) da persone che non sono in equilibrio ma che stringono progressivamente e annullano l’individualità di chi intrappolano.
Il verbo “piacere” è importantissimo, così come tutti quei verbi che hanno un ruolo da protagonisti nella nostra vita.
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