Quando la vita ci mette alle strette: l’antica leggenda del Quetzalcóatl

quando la vita ci mette alle strette

Una leggenda di antiche origini mesoamericane racconta del dio della pioggia, Tlaloc, che osservava ogni giorno una caverna da cui continuavano a uscire dei serpenti. Tra questi vi era un piccolo serpente che non era mai uscito da quella grotta e non aveva mai visto il mondo: aveva paura della luce e della vita stessa. Notando che la sua paura cresceva sempre di più, il dio pensò a un modo per aiutarlo: cominciò a far piovere a dirotto, prima per ore, poi per settimane, fino a quando le settimane divennero mesi.

Ogni scroscio peggiorava la situazione della caverna, che continuava ad allagarsi. E mentre gli altri serpenti uscivano e rimanevano al sicuro, il serpente impaurito non riusciva a staccarsi dalla sua idea di rifugio e cercava di arrampicarsi sempre più in alto all’interno della caverna. Ma Tlaloc, che provava amore per quell’essere, aveva compreso che, in quella situazione, solo la sofferenza gli avrebbe dato la forza e il coraggio di abbandonare la grotta.

E così accadde.

Obbligato dalla situazione che lo aveva messo alle strette, il serpente uscì per la prima volta dalla caverna e il dio della pioggia fece tornare a splendere il sole. Il serpente si innamorò: si innamorò di tutto, della luce calda del sole, del cielo, del mondo. Rimase affascinato soprattutto dai bellissimi uccelli colorati che si libravano in aria, i quetzal splendenti.

quetzal splendente
Nella foto, un esemplare di quetzal splendente, un uccello appartenente alla famiglia Trogonidae e diffuso in America Centrale.

A quel punto un altro serpente gli si avvicinò, dicendogli: «Li ammiri vero? Vorresti avere le ali ed essere bello come loro, vero?». Il serpente annuì. «Sappi che non puoi», continuò l’altro, «Sei solo un serpente e lo sarai per sempre, sei nato per strisciare e non potrai far altro nella vita che restare a terra, né essere bello come un quetzal».

Al piccolo serpente si spezzò il cuore.

Allora il dio della pioggia, che aveva ascoltato tutto, soffiò via tutte le nuvole. Il sole splendette. Il piccolo serpente allora guardò il suo riflesso in una pozzanghera creata dalla pioggia e per la prima volta vide se stesso e riconobbe tutto il suo straordinario potere. Disse: «Potrò non avere mai le ali, né volare come un quetzal, ma possiedo un magnifico dono, quello dell’immaginazione, che mi consente di abbattere qualsiasi barriera e rendere possibile l’impossibile, perché credo in me e nelle mie capacità».

Il dio della pioggia era felice, perché il piccolo serpente non solo non aveva più paura della luce, ma aveva finalmente compreso il suo vero potere. Così lo volle premiare: il vento cominciò a soffiare forte e iniziò a sollevare il serpente sempre più vicino al sole. Più si avvicinava alla luce, più si sentiva felice e libero e, quando toccò la stella, divenne un tutt’uno con questa: dalla fusione nacque Quetzalcóatl, il leggendario serpente piumato di antiche origini mesoamericane, fra le figure e divinità più importanti del mondo antico. Mentre volava sopra il mondo, in tutta la sua bellezza ed eleganza, riconobbe la caverna in cui tanto a lungo si era rifugiato, senza mai vivere, e decise di aiutare tutti gli individui che stavano ancora soffrendo, come aveva sofferto lui, perché ancora ignari del loro straordinario potere.

Con le spalle al muro: qual è la nostra caverna?

Questa bellissima storia ce la racconta Don Jose Ruiz, figlio di Don Miguel Ruiz, sciamano e autore del bestseller internazionale I quattro accordi. Nella leggenda che ci viene narrata, il dio della pioggia ha creato una situazione (il diluvio prolungato e senza sosta) che costringe il piccolo serpente ad uscire dalla caverna, un luogo – che può essere fisico oppure no – in cui non faceva altro che alimentare le sue fobie e che non gli permetteva di godere della vita, con tutte le sue straordinarie forme. Nella nostra realtà quotidiana, non abbiamo un dio della pioggia che, per dirla con le parole di Don Jose Ruiz, ci spinge “fuori dalle mura della prigione che ci siamo costruiti da soli”, ma è la vita stessa che spesso crea situazioni di disagio e ci mette con le spalle al muro, costringendoci ad uscire dalla nostra caverna.

Ognuno di noi ha una caverna, che può essere di qualsiasi natura.

Basti pensare a quante volte ci capita di vivere una situazione che non riusciamo a cambiare per paura: un lavoro che ci fa soffrire, una relazione malata, un’amicizia egoista. Certamente non è semplice cambiare e, anche se quella situazione ci crea dolore e forte malessere, scegliamo di rimanerci perché ci è familiare.

Il piccolo serpente, quando la caverna comincia ad allagarsi, cerca di salire più in alto che può, ancorandosi alla speranza che presto o tardi la pioggia cesserà. Gli è familiare la caverna come per noi possono esserlo tutte le convinzioni alle quali restiamo aggrappati, che ne siamo coscienti o meno. E le giustificazioni che possiamo darci sono tra le più disparate: ci convinciamo che non possiamo cambiare la situazione per non ferire o deludere qualcuno, che le cose possono andar meglio se impariamo a tenere duro. Questo non è un discorso che si scontra con il concetto di resilienza, qualità tanto importante nella vita e che andrebbe sempre allenata, perché ha a che fare con il sentirci intrappolati a causa della paura, imprigionati in una situazione che ci sembra senza via di fuga.

Il messaggio sciamanico che si cela dietro questo mito è proprio questo: ognuno di noi ha vissuto dentro una propria caverna e, proprio come ha fatto il serpente all’inizio, la prima tentazione può essere quella di restare celati nell’oscurità che conosciamo e che tanto ci è familiare e lasciare che la paura ci neghi l’esperienza del cambiamento.

La nostra paura della luce: tutte le volte che ci siamo detti «Non siamo abbastanza»

C’è una bellissima frase di Marianne Williamson, autrice best seller di fama internazionale e attivista, che dice:

“La nostra paura più profonda non è di essere inadeguati. La nostra paura più profonda è di essere potenti oltre ogni limite. È la nostra luce, non la nostra ombra, che ci spaventa di più”.

Il serpente della leggenda aveva proprio paura della luce, di quella stessa luce che poi lo ha trasformato in qualcosa di più, in un essere consapevole di tutte le grandi potenzialità che aveva dentro di sé, ma che teneva nascoste.

La vita a volte ci costringe a uscire dalla caverna per abbracciare la luce. Tuttavia, anche quando riusciamo ad avvicinarci alla luce, ci sentiamo dire che non abbiamo la capacità di riuscirci, che non abbiamo la forza per sostenere il cambiamento o che faremmo meglio ad arrenderci. Troppo spesso queste voci non sono esterne a noi, pronunciate da persone a noi vicine, ma da noi stessi. Don Jose Ruiz ha ereditato gli insegnamenti e la saggezza degli antichi sciamani, traducendoli in concetti per la vita quotidiana: grazie a questi insegnamenti, scopriamo che questa voce che diffonde negatività viene chiamata il parassita.

L’insegnamento sciamanico: ascoltiamo lo sciamano che è in noi, non il parassita

Il parassita rappresenta tutte quelle voci che abbiamo nella mente e che ci dicono che non valiamo nulla, che non abbiamo alcun potere, che non siamo creature straordinarie e che faremmo meglio a continuare a vivere nella caverna.

Ripensa a tutte le volte che, in coppia, nel lavoro, nella società, hai detto a te stesso “non sei abbastanza”. Rifletti su quali sono gli ambiti della vita in cui fai fatica a uscire dall’ombra, in cui ti sottovaluti e in cui temi di inseguire i tuoi sogni. Lo straordinario insegnamento di cui si fa portavoce Don Jose Ruiz è proprio quello di smettere di ascoltare il proprio parassita, di diventarne consapevoli e di non credere alle storie velenose che racconta su di noi.

Ascoltare il parassita, prendere per vere le sue menzogne senza riuscire a metterle in discussione, significa rimanere nella nostra caverna e non imparare mai a volare. Ruiz scrive poi:

“Quando Quetzalcóatl guardò nello specchio d’acqua e vide il suo riflesso, si ricordò degli strumenti segreti che servono per fare della vita un’opera d’arte perché erano dentro di lui fin dall’inizio.”

A noi l’augurio di riscoprire l’opera d’arte della nostra vita.

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