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Donna da sola, felice

La solitudine felice: imparare ad essere soli per essere meno soli

Quella della solitudine è un’esperienza universale. Ognuno di noi l’ha sperimentata, per tratti più o meno brevi, nei momenti di sconforto, ma anche in quelli felici. Sia quando eravamo circondati da affetti, sia quando, per scelta, abbiamo cercato uno spazio, mentale o fisico, in cui trovare nuove energie e prospettive, o per allontanarci da una dimensione che non sentivamo più nostra. Non a caso, come afferma il prof. Giorgio Nardone, “la maggioranza delle discipline che si occupano dell’uomo si sono occupate della solitudine”, proprio perché, oltre a possedere un rilevante profilo scientifico e psicologico, la solitudine è innanzitutto qualcosa di esperienziale. Solitudine felice e solitudine subita Secondo Nardone, la solitudine è un fenomeno estremamente ambivalente: si può essere perfettamente in compagnia pur essendo da soli, oppure ci si può sentire soli anche quando siamo circondati da persone, soprattutto se non le stimiamo o non ci piacciono. La solitudine può persino essere felice, se viene volontariamente impiegata per ricercare sé stessi, attraverso un lavoro introspettivo o di isolamento che, in alcuni casi, può raggiungere anche forme estreme di ascetismo. Ma è la solitudine subita ad essere alla radice dei più comuni stati di sofferenza personale: nel dolore si è soli, nella paura si è soli, e in nessun modo la solitudine può diventare un’esperienza condivisa. “Nemmeno il più alto grado di empatia può fare in modo che ci si senta soli in due”, afferma Nardone. E ciò che rende la solitudine particolarmente aspra è il fatto che nessuno di noi può sottrarsi a tre tipi di relazioni: quella con noi stessi, quella con l’altro e quella col mondo esterno. Basta che solo una delle tre non funzioni che anche le altre due vengono inficiate. Imparare ad essere soli per non essere soli Al contrario di quanto si possa pensare, cercare di aumentare le interazioni sociali può essere controproducente, a causa di un effetto paradosso: “chi si sente profondamente solo e cerca di rifuggire a questo con più contatti, purtroppo finisce per essere ancora più solo”, sostiene Nardone. Un esempio di questo paradosso è l’iperconnessione che caratterizza il mondo dei social: più si è online, e più si interagisce solo sul piano virtuale, più in realtà si è soli. I like, i commenti, le interazioni attutiscono la sensazione di solitudine, ma non la risolvono; rappresentano una fuga momentanea, non la soluzione. Cosa fare, quindi, per uscire dalla costante sensazione di solitudine? La cura essenziale della solitudine risiede nella sua gestione: se è vero che la solitudine è in qualche modo inevitabile, dobbiamo imparare ad accettarla e a gestirla. E quanto più siamo in grado di prenderci cura dell’altro, tanto meno ci sentiremo soli. Quanto più impariamo a stare da soli, tanto più sapremo prenderci cura dell’altro.  Ciò avviene perché solo in certe solitudini riusciamo a migliorare alcune nostre prerogative e caratteristiche o a scoprire risorse che non sapevamo di avere. Nel momento in cui si innesca questo circolo virtuoso, riusciamo anche a scatenare una dinamica di relazione. Se siamo in grado di “distribuire” la nostra disponibilità a non far sentire solo l’altro e gli altri, ciò tornerà indietro persino più di quanto abbiamo dato: diventeremo complici nel non sentirci soli. Ed è attraverso questo atto quasi egoistico – e di compassione nel senso etimologico del termine – che l’idea di essere soli non sarà più così spaventosa. Per approfondire le tecniche e le strategie per gestire la solitudine e il cambiamento con il Prof. Giorgio Nardone, scopri il programma del prossimo corso, cliccando qui.

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Cosa ci piace davvero? - Oltre il dovere, il potere e il bisogna

Cosa ci piace davvero? Oltre il dovere, il potere e il bisogna

A cura di Life Strategies A volte ci svegliamo e veniamo colti da una sensazione straniante: ci sembra di vivere dentro un copione già scritto. Ogni mattina suona la sveglia, sempre alla stessa ora. Un caffè al volo, la corsa per arrivare puntuali, le stesse strade, le stesse facce, gli stessi gesti ripetuti all’infinito, per svolgere il nostro lavoro o assolvere a tutti gli altri impegni personali, e arrivare alla fine di una giornata che, molto probabilmente, si ripeterà uguale il giorno successivo. La routine quotidiana ci promette stabilità, ma spesso ci incatena a un meccanismo che spegne lentamente la nostra creatività e il senso di novità. Invece di rassicurarci, finisce per ingabbiarci in una confortante monotonia che ci fa dimenticare chi siamo e cosa desideriamo davvero. Può persino farci sentire disconnessi e apatici, ma comunque pronti a soddisfare aspettative che non ci appartengono e compiti che non ci appagano davvero. È in quei momenti che ci chiediamo: “è davvero questo ciò che mi piace?”  E subito dopo, la risposta si perde in un rumore di fondo fatto di “devo”, “non posso”, “bisogna”. Trascuriamo troppo spesso un verbo fondamentale, tanto semplice quanto rivoluzionario: piacere. Secondo Igor Sibaldi, i verbi “potere”, “dovere” e “bisogna” sono i tre grandi nemici del desiderio autentico. Sono verbi che usiamo ogni giorno, spesso senza accorgercene. Eppure, influiscono profondamente sul modo in cui pensiamo, scegliamo e perfino sogniamo. I verbi che ci tengono lontani da noi stessi Dovere: quando l’obbedienza soffoca il nostro bisogno di libertà Il verbo dovere ha due volti: da un lato esprime un’urgenza personale (“Devo cambiare qualcosa nella mia vita”), dall’altro ci lega a un ordine esterno (“Devo fare ciò che ci si aspetta da me”). Quante volte il nostro vero “dovere” – quello che nasce da un bisogno dell’anima – è stato messo da parte per assecondare un dovere imposto? Spesso non ce ne accorgiamo nemmeno. Ma dentro di noi, qualcosa si spegne. Potere: quando ci convinciamo di poter fare solo ciò che ci è stato concesso In molte lingue, potere distingue tra capacità (can) e permesso (may). In italiano, invece, tutto si mescola. Così iniziamo a credere che possiamo fare solo ciò che ci è stato permesso. E se invece potessimo fare molto di più? Se avessimo dimenticato di cosa siamo capaci davvero solo perché nessuno ce l’ha mai concesso? Bisogna: il verbo senza volto che ci mette in fila “Bisogna lavorare duro”, “bisogna accontentarsi”, “bisogna crescere”…. “Bisogna” è il verbo più subdolo, perché è impersonale. Non ha un soggetto. Non lascia spazio alla domanda: “È vero per me?”. E allora finiamo per adeguarci. Ci uniformiamo. E smettiamo di ascoltarci. Tornare al nostro mi piace è un atto di libertà Ricordarci cosa ci piace davvero può spaventare. Ci chiede di fermarci, ascoltarci e magari cambiare rotta. Ma è anche il gesto più coraggioso e necessario per ritrovare una vita che sentiamo nostra. Spesso, infatti, siamo stati educati a ragionare prima di sentire, a obbedire prima di desiderare. E va bene così: in certi momenti è servito, ci ha protetti, ci ha fatti persino crescere. Questo, però, non deve impedirci di aggiungere sempre qualcosa a ciò che vogliamo o sentiamo, imparando a riconoscere e a valorizzare ciò che ci muove davvero. E non perché è qualcun altro a chiedercelo, ma perché siamo noi a volerlo. Insieme ad Igor Sibaldi, nei prossimi corsi di Life Strategies, scopriremo come liberarci da quei condizionamenti limitanti che ci impediscono di realizzarci pienamente. Impareremo a capire cosa si nasconde dietro il termine “Destino” e cosa c’è oltre quell’orizzonte che ci sembra ristretto ad una serie di possibilità predeterminate. Clicca qui per scoprire il prossimo corso!

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Quando il cibo diventa silenzio e la terapia diventa nutrimento

Quando il cibo diventa silenzio e la terapia diventa nutrimento

A cura di Life Strategies I disturbi alimentari (DCA), lungi dall’essere riconducibili solo a problemi legati al cibo, sono sofferenze profonde, mascherate da rituali, silenzi e ossessioni. Non parlano solo di ciò che si mangia o non si mangia, ma di chi si è, di come ci si percepisce, di quanto ci si sente accettati, amati, valorizzati. Sono, a tutti gli effetti, un modo disfunzionale di comunicare un disagio profondo, spesso invisibile agli occhi di chi sta attorno. Anoressia, bulimia, vomiting, binge eating: ciascuno di questi disturbi è una forma di prigione in cui il cibo diventa il carceriere e il corpo il campo di battaglia. All’inizio sembrano addirittura soluzioni: controllare il cibo diventa un modo per controllare l’ansia, la tristezza, il senso di vuoto o l’insicurezza. Ma quel controllo, presto, si trasforma in schiavitù. L’apparenza che diventa ossessione “Parlare di disturbi del comportamento alimentare è estremamente riduttivo. Se vogliamo trovare soluzioni efficaci, dobbiamo definire correttamente il problema”, osserva Giorgio Nardone, psicologo e psicoterapeuta, che ha trattato con successo oltre 30.000 casi di pazienti affetti dalle più invalidanti forme di psicopatologia. Oggi i disturbi alimentari colpiscono sempre più presto, coinvolgendo anche bambine e bambini di appena 8 o 9 anni. Iniziano a rifiutare il cibo o a sviluppare paure ossessive legate al proprio corpo, spesso prima ancora di comprendere davvero cosa significhi crescere. È il segnale doloroso di una società che troppo spesso insegna a misurare il valore di sé attraverso l’aspetto, invece che attraverso ciò che si è davvero. Ciò che all’inizio nasce come una strategia di adattamento o di difesa, si trasforma presto in una trappola. Il sintomo si fa padrone della mente e della vita: tutto ruota intorno al cibo, al peso, allo specchio. Il mondo interiore si riduce progressivamente, fino a coincidere con la malattia stessa. In questa spirale, non basta comprendere il perché: serve un intervento immediato, mirato, che possa interrompere il ciclo disfunzionale prima che diventi dominante. Comunicare per dare forma al dolore… Il professor Nardone propone un protocollo specifico per l’anoressia giovanile che comincia, fin dalla prima seduta, con un intervento di forte impatto, capace di innescare cambiamenti progressivi e significativi. Si lavora prima di tutto con i genitori, che spesso diventano ostaggi inconsapevoli della malattia. Per questo è fondamentale aiutarli a ritrovare equilibrio e consapevolezza, affinché smettano di sentirsi in balìa della situazione e tornino a svolgere un ruolo guida: presenti, forti e rassicuranti, che non si fanno sopraffare. Con la ragazza – o il ragazzo – il primo passo è costruire un ponte comunicativo che parli la sua lingua: quella dell’estetica e del significato che attribuisce al corpo. Le viene rivolto un messaggio chiaro e profondo: “Non posso mentirti. Per aiutarti dovrò farti prendere peso. Ma non voglio che tu diventi grassa, voglio che tu diventi bella. Bella come puoi essere davvero”. Parole scelte con cura, che toccano corde profonde e spesso inascoltate. Successivamente, si introduce un esercizio immaginativo: “Se potessi mangiare tutto ciò che desideri senza ingrassare, cosa sceglieresti?”. Si esplorano insieme sapori, consistenze, piaceri dimenticati. Non è solo una fantasia, è un modo per riattivare il desiderio e la relazione positiva con il cibo. È una forma delicata di ipnosi non formale, capace di far emergere emozioni autentiche. I giovani si rilassano, si commuovono, si aprono. … e creare nuovi spazi Uno spazio nuovo e più sicuro, che diventa possibile con un primo piccolo fondamentale accordo: iniziare a reinserire gradualmente i cibi desiderati, con il sostegno silenzioso e rispettoso dei genitori, presenti ma non invadenti. Un passo dopo l’altro, si comincia a uscire dalla trappola. Quando la terapia è costruita su misura per il problema, quando segue la logica specifica del disturbo, il cambiamento può avvenire in tempi sorprendentemente brevi. Non perché si salti il dolore, ma perché si lavora dove il dolore prende forma. Continueremo ad approfondire le tecniche per superare quei problemi che, in apparenza, ci sembrano irrisolvibili in uno dei prossimi corsi con il professor Nardone. Scopri gli appuntamenti di cui sarà protagonista cliccando qui!

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Destino, Disobbedienza e Desideri: come smettere di dire “Se avessi…”

Destino, Disobbedienza e Desideri: come smettere di dire “Se avessi…”

A cura di Life Strategies Quante volte iniziamo una frase con “Se…”. “Se avessi scelto un’altra facoltà…”, “se avessi aspettato a sposarmi e ad avere figli…”, “se avessi tentato un’esperienza all’estero…”. La tentazione di interrogarsi sulle nostre scelte e su cosa ci ha fatto deviare dai nostri sogni è forte. Sembra quasi che un fattore esterno condizioni la nostra libertà. Ma, forse, questa convinzione ci aiuta solo a evitare di ammettere che siamo stati noi stessi a permettere che le cose andassero in un certo modo. I convincimenti del Destino Durante una delle straordinarie giornate trascorse con Igor Sibaldi, abbiamo scoperto che siamo proprio noi, per convenzione, necessità, pressioni familiari o paura, a compiere certe scelte, attribuendole a un Destino indefinito. Questo accade perché siamo stati educati al “dover essere”. E ciò non succede solo a chi non ha un talento spiccato: riguarda tutti noi. Lo stesso Igor, da giovane, ha trascorso dieci anni a lavorare come traduttore, mentre il suo vero sogno era scrivere. Durante quel periodo si sentiva mediamente infelice, ma quando finalmente si è dedicato alla scrittura, improvvisamente una serie di circostanze favorevoli si sono allineate. Perché? “Perché stavo facendo davvero ciò che mi piaceva.” Cosa ci piace davvero? Mentre il senso del dovere è chiaro e diffuso, il senso del desiderio è molto più complesso da comprendere, soprattutto da adulti. Il desiderio funziona solo quando smette di essere una flebile speranza (tipica di chi tentenna) o un’illusione (tipica di chi non ripone nemmeno la speranza che qualcosa possa effettivamente capitare), e diventa libertà: la libertà di desiderare. Ma come facciamo a riconoscere un vero Desiderio, se spesso ci accontentiamo di ciò che è a portata di mano? Dalla reazione fisica che esso genera: il sorriso, irresistibile segnale di felicità autentica. Un errore comune è confondere il desiderio con l’invidia. L’invidia, al contrario, non genera sorrisi ma frustrazione. È un “disturbo” della visione: invece di guardare ciò che ci piace davvero, ci ritroviamo a desiderare ciò che vedono gli altri, smettendo di vedere il mondo con i nostri occhi. E dopo anni di questo meccanismo, ci rendiamo conto che la vita che viviamo non è la nostra. Disobbedienza, scoperta e desideri per superare il Destino Gli ostacoli che ci impediscono di desiderare sono numerosi: la tecnologia, la pubblicità, l’odio. Cosa aiuta, invece, a desiderare? Un esempio illuminante è Pinocchio. Lui non smette mai di desiderare, non si lascia influenzare, nemmeno dalla Fata Turchina o dal Grillo Parlante. E alla fine compie un miracolo, proprio perché non smette mai di “vedere oltre”. Per desiderare serve anche un pizzico di Disobbedienza e coraggio: la capacità del cuore di ampliarsi, la volontà di vedere oltre. Dall’epoca di Darwin in poi abbiamo premiato lo spirito di adattamento, ma per creare qualcosa di nuovo – che è il vero significato della creatività – occorre sentire la mancanza di qualcosa e avere il coraggio di disobbedire a noi stessi. Quando iniziamo a farlo, scopriamo aspetti di noi che non avevamo mai visto prima. “Quello non sono più io, sono più di me.” Igor Sibaldi Igor Sibaldi sarà protagonista dei prossimi corsi di Life Strategies. Scopri tutti i dettagli, cliccando qui!

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Conflitti: quando trovare l’accordo raddoppia la soddisfazione

Conflitti: quando trovare l’accordo raddoppia la soddisfazione

A cura di Life Strategies A tutti noi capita di vivere situazioni di conflitto, che sia nella vita di coppia, in famiglia o sul posto di lavoro. La via che troviamo più agevole è, spesso, sottrarci a un lungo dibattito, che può essere anche esasperante, e giungere il prima possibile a un compromesso, pur di non lasciare aperto un confronto. Ciò è riconducibile anche al fatto che per molti di noi il concetto stesso di negoziazione ha in sé una connotazione negativa. In maniera più o meno inconscia, associamo questa parola ai concetti di conflittualità, di inganno, persino di prevaricazione basata su un utilizzo astuto della dialettica o delle nostre capacità di convincimento. In realtà, questo termine può – e dovrebbe – assumere una sfumatura decisamente più positiva: l’obiettivo di ogni confronto – e della negoziazione che ne deriva – è trasformare possibili contrasti in collaborazione, azzerare il conflitto e convertirlo in accordo. Secondo il Professor Giorgio Nardone, la negoziazione si basa sull’utilizzo di tecniche di problem solving e persuasione. Lungi dall’essere assimilabile ad azioni derivanti da atti manipolatori, essa è una delle arti più antiche, dato che l’essere umano la pratica da millenni: infatti, è proprio sul confronto di opinioni divergenti, e sul trovare un punto di convergenza tra punti di vista diversi, che si fondano molti degli aspetti costitutivi della nostra società. Sedersi al tavolo negoziale Il confronto, e il suo possibile esito positivo, si basano su un assunto fondamentale: essere disposti a sedersi al tavolo negoziale. Secondo Giorgio Nardone, esso “non è un luogo fisico, ma piuttosto una predisposizione mentale di tutti i soggetti” chiamati a risolvere il conflitto. Infatti, non è un caso se la stragrande maggioranza dei confronti fallisce non per un’errata comunicazione, ma per “l’assenza di desiderio nel trovare un accordo”. La negoziazione, inoltre, deve avvenire all’interno di confini chiari e prestabiliti: non rispettarli significa generare nuovi livelli di conflittualità, che, a loro volta, richiedono ulteriori confronti e approfondimenti. Inoltre, l’obiettivo di ogni confronto è trovare una soluzione, non individuare il colpevole, né stabilire chi ha ragione. Percepire, ascoltare e valorizzare la controparte per risolvere i conflitti Per iniziare a negoziare, dobbiamo metterci nella condizione di percezione dell’altro. Dobbiamo, cioè, fargli sentire che riteniamo la sua percezione ragionevole e aggiungere al suo punto di vista ulteriori spunti e riflessioni. La prospettiva aggiuntiva non deve essere mai contraddittoria, mai un braccio di ferro, ma un arricchimento delle argomentazioni altrui. È questo procedere per step e in maniera incrementale che consente di riorientare, insieme i punti, di vista e giungere al punto in cui essi coincidono o, almeno, possono coesistere. Secondo Giorgio Nardone, infatti, “gli accordi spesso non consistono nel raggiungere esclusivamente ciò che vogliamo, ma nel costruire insieme all’altro una soluzione alternativa che non avevamo preso in considerazione”. Altro ingrediente indispensabile è la capacità di controllare le proprie emozioni. Anche lo sguardo, la postura, la comunicazione non verbale sono aspetti fondamentali per il buon esito di qualsiasi negoziazione. Quando due persone di eguale forza si incontrano per negoziare, se una assume un fare assertivo e uno sguardo muscolare, l’altra reagirà per istinto mettendosi sulla difensiva e generando un’escalation simmetrica. Qual è il rischio peggiore che si corre in una negoziazione? È il giudizio implicito, che si determina quando la negoziazione non ha termini chiari e definiti e al di sotto della coscienza si crea un’idea dell’interlocutore. È il momento in cui scatta la prima psicotrappola: pensare che l’altro farebbe la stessa cosa che faremmo noi al suo posto. L’autovalutazione e la regola relazionale Altro presupposto alla base di una negoziazione di successo è la regola relazionale, secondo la quale prima si dà e poi si chiede. Infatti, la prima cosa da evitare è mettere la controparte nella condizione di credere che stiamo pretendendo qualcosa, come se fosse un nostro diritto. E ciò vale anche nelle situazioni in cui c’è un evidente disequilibrio di potere, come tra dipendente e titolare quando si richiede un aumento. Spesso siamo portati a pensare che il semplice fatto di aver passato alcuni anni all’interno dell’azienda sia sufficiente per ottenere una maggiorazione dello stipendio. Se ciò può essere vero a livello legale o contrattuale, è altrettanto indubbio che la dinamica che si instaura in casi come questo è di tipo relazionale. Per questo, ancora prima di richiedere l’aumento è importante sottolineare quali sono stati i risultati concreti che siamo riusciti a produrre all’interno del team o a livello aziendale. Quando riusciamo ad autovalutarci, infatti, assumiamo una posizione negoziale più forte perché, sicuri degli obiettivi che abbiamo raggiunto, riusciamo anche a dimostrarli e ad utilizzarli come leva per aprire un confronto che non sia unidirezionale, ma un momento in cui si aprono porte per un processo di ulteriore miglioramento condiviso. Continueremo a parlare di dialogo e cambiamento strategico, di psicotrappole e di scienza della performance in uno dei prossimi corsi con il professor Nardone. Scopri gli appuntamenti di cui sarà protagonista cliccando qui.

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Quando la paura di riuscire è più forte della paura di fallire

Quando la paura di farcela è più forte della paura di fallire

A cura di Life Strategies La paura di farcela: a ben pensarci, questa espressione è un paradosso. Coltivare e sviluppare relazioni sane, avere successo nello studio e nel lavoro, crescere e fissare nuovi obiettivi che ci motivino e spingano a dare il meglio di noi dovrebbero essere fonte di gratificazione e rappresentare uno step importante per la nostra crescita. Com’è possibile, allora, che, una volta arrivati a ridosso del traguardo, veniamo colti dalla paura di superarlo? La nikefobia e le sue varianti Come sottolinea il prof. Giorgio Nardone, “per molti decenni si è parlato di nikefobia, la paura della vittoria, solo in ambito di scienza dell’alta prestazione”. Con questo termine si faceva riferimento, cioè, ad atleti, artisti, top manager e a tutti quei professionisti a cui vengono sempre richieste performance di alto livello. In realtà, quello della nikefobia è un fenomeno decisamente più diffuso, che riguarda il rapporto con noi stessi, con gli altri e con il mondo. Ciò accade perché la paura della vittoria ha a che fare con un limite che ognuno di noi può decidere di costruire per non soffrire: “è come se, in anticipo, intuissimo emotivamente, più che razionalmente, che il successo potrebbe essere pericoloso”. La nikefobia può manifestarsi in diverse forme. Il prof. Giorgio Nardone, nell’ambito dei suoi studi su questo tema, ne ha individuate alcune tipologie ricorrenti: quella in cui la propria vittoria potrebbe causare sofferenza a una persona cara. Ciò avviene quando accanto a noi c’è qualcuno che ha sempre desiderato raggiungere un determinato obiettivo senza mai riuscirci. Nel caso in cui fossimo noi ad avere successo in quello stesso ambito, potremmo causare un dolore profondo a quella persona. È il caso di una promozione a lavoro o di un voto a un esame universitario. Il meccanismo che scatta in questi casi non è intenzionale o consapevole. È un’emozione che si sviluppa a un livello inconscio. È una sorta di sofferenza acuta, perché l’altro sente – anche se non lo esprime – che noi siamo riusciti laddove lui ha sempre fallito. La paura di diventare grandi. Presente soprattutto nei giovani, riguarda tutte le circostanze in cui un successo personale, o professionale, implica l’assumersi un maggior grado di responsabilità e un più rilevante carico psicologico. Ciò avviene, per esempio, quando si sta per abbandonare il nido familiare. In situazioni come queste, il cambiamento può generare forti resistenze: alla maggiore indipendenza corrisponde la mancanza della figura “garante” dei genitori, che non svolgono più mansioni pratiche per conto dei propri figli e che smettono di decidere per loro. Allo stesso modo, anche una promozione sul posto di lavoro potrebbe diventare una prospettiva non più auspicabile. O laurearsi, pur essendo studenti brillanti, diventa un problema perché significherebbe abbandonare l’ambito accademico, in cui si sono ottenuti ottimi risultati, per tuffarsi nel mercato del lavoro, che, oltre ad essere incerto, è anche totalmente nuovo. In situazioni come queste il peso della vittoria si annida proprio nella responsabilità: quando il cambiamento è “epocale”, tutto ciò che ne deriva viene percepito come scomodo, pericoloso o troppo grande da affrontare. La paura degli iper-perfezionisti, o più in generale di chi cerca di eccellere in tutto. Attitudine che può degenerare in uno stato di iper-controllo maniacale, come nella gestione degli spazi intimi. Il problema è che, nel tentativo di dare il massimo, gli iper-perfezionisti si spingono oltre ogni limite, fino allo sfinimento. In questo caso, è il cervello ad intervenire, attraverso una reazione atavica, legata al paleoncefalo, la parte più antica e istintiva del nostro sistema nervoso. Il cervello ci blocca per non permettere al nostro corpo, che viene sottoposto ad uno stress performativo costante, di raggiungere il completo esaurimento di tutte le risorse che abbiamo a disposizione. Sbagliare per superare la paura di farcela Come possiamo, dunque, superare la paura di farcela? Imparando ad osare, mettendoci nella condizione di correre il rischio di sbagliare, perché senza errori non diventiamo mai davvero capaci. L’errore può essere costruttivo, insegnarci cose che ancora non sapevamo di noi, mostrarci dei limiti, ma anche indicarci quel è la giusta direzione da seguire. Quante grandi scoperte scientifiche sono avvenute solo a seguito di tentativi ed errori ripetuti? Edison sbagliò 2.000 volte prima di riuscire ad inventare la lampadina. Fleming, per sua stessa ammissione, scoprì la penicillina quasi per sbaglio. Il caso aiuta solo la mente preparata. Osare significa avere il coraggio di rischiare, di sbagliare, di fare brutta figura, e, se necessario, anche di vergognarsi. Solo così possiamo andare oltre i nostri limiti e crescere. Il cambiamento, e il superamento della paura di vincere, passano attraverso lo scavalcamento di piccoli ostacoli quotidiani, che, anche grazie all’errore, possono aiutarci a costruire la fiducia necessaria per raggiungere e superare serenamente tutti i traguardi che ci prefissiamo. La paura di farcela, gli autoinganni e le psicotrappole, il dialogo e il cambiamento strategico sono solo alcuni dei temi trattati dal prof. Giorgio Nardone durante i corsi di Life Strategies. Scopri il prossimo appuntamento di cui sarà protagonista, cliccando qui!

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IGOR SIBALDI
Il Destino

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Dal 2016 ci occupiamo del benessere delle persone, organizzando eventi per la crescita personale. Tale attività, che è anche un valore della nostra vita, non può essere svolta se mette a rischio la salute di chi amiamo.
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