La solitudine felice: imparare ad essere soli per essere meno soli

Donna da sola, felice

Quella della solitudine è un’esperienza universale. Ognuno di noi l’ha sperimentata, per tratti più o meno brevi, nei momenti di sconforto, ma anche in quelli felici. Sia quando eravamo circondati da affetti, sia quando, per scelta, abbiamo cercato uno spazio, mentale o fisico, in cui trovare nuove energie e prospettive, o per allontanarci da una dimensione che non sentivamo più nostra.

Non a caso, come afferma il prof. Giorgio Nardone, “la maggioranza delle discipline che si occupano dell’uomo si sono occupate della solitudine”, proprio perché, oltre a possedere un rilevante profilo scientifico e psicologico, la solitudine è innanzitutto qualcosa di esperienziale.

Solitudine felice e solitudine subita

Secondo Nardone, la solitudine è un fenomeno estremamente ambivalente: si può essere perfettamente in compagnia pur essendo da soli, oppure ci si può sentire soli anche quando siamo circondati da persone, soprattutto se non le stimiamo o non ci piacciono.

La solitudine può persino essere felice, se viene volontariamente impiegata per ricercare sé stessi, attraverso un lavoro introspettivo o di isolamento che, in alcuni casi, può raggiungere anche forme estreme di ascetismo.

Ma è la solitudine subita ad essere alla radice dei più comuni stati di sofferenza personale: nel dolore si è soli, nella paura si è soli, e in nessun modo la solitudine può diventare un’esperienza condivisa. “Nemmeno il più alto grado di empatia può fare in modo che ci si senta soli in due”, afferma Nardone.

E ciò che rende la solitudine particolarmente aspra è il fatto che nessuno di noi può sottrarsi a tre tipi di relazioni: quella con noi stessi, quella con l’altro e quella col mondo esterno. Basta che solo una delle tre non funzioni che anche le altre due vengono inficiate.

Imparare ad essere soli per non essere soli

Al contrario di quanto si possa pensare, cercare di aumentare le interazioni sociali può essere controproducente, a causa di un effetto paradosso: “chi si sente profondamente solo e cerca di rifuggire a questo con più contatti, purtroppo finisce per essere ancora più solo”, sostiene Nardone.

Un esempio di questo paradosso è l’iperconnessione che caratterizza il mondo dei social: più si è online, e più si interagisce solo sul piano virtuale, più in realtà si è soli. I like, i commenti, le interazioni attutiscono la sensazione di solitudine, ma non la risolvono; rappresentano una fuga momentanea, non la soluzione.

Cosa fare, quindi, per uscire dalla costante sensazione di solitudine?

La cura essenziale della solitudine risiede nella sua gestione: se è vero che la solitudine è in qualche modo inevitabile, dobbiamo imparare ad accettarla e a gestirla. E quanto più siamo in grado di prenderci cura dell’altro, tanto meno ci sentiremo soli. Quanto più impariamo a stare da soli, tanto più sapremo prenderci cura dell’altro. 

Ciò avviene perché solo in certe solitudini riusciamo a migliorare alcune nostre prerogative e caratteristiche o a scoprire risorse che non sapevamo di avere. Nel momento in cui si innesca questo circolo virtuoso, riusciamo anche a scatenare una dinamica di relazione.

Se siamo in grado di “distribuire” la nostra disponibilità a non far sentire solo l’altro e gli altri, ciò tornerà indietro persino più di quanto abbiamo dato: diventeremo complici nel non sentirci soli. Ed è attraverso questo atto quasi egoistico – e di compassione nel senso etimologico del termine – che l’idea di essere soli non sarà più così spaventosa.

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