Concentrarsi sul problema non è la soluzione

A cura di Life Strategies

Sentiamo spesso dire che gli atleti sono sottoposti a grandi pressioni, a uno stress psicologico continuo per il quale occorre allenarsi soprattutto mentalmente.

Dal punto di vista del funzionamento neurologico, è la stessa identica situazione che vivono tante persone, come ad esempio i manager, le neomamme, o tutti coloro che hanno un obiettivo importante e che va raggiunto con costanza e con una preparazione che può durare anche molto tempo.

Secondo la mental coach Nicoletta Romanazzi, è sempre utile prendere come paradigma la dimensione dello sport, specie se praticato a livelli molto alti.

L’agonismo, infatti, spinge troppo e solo in una sola direzione, costringe a stare in un’unica dimensione che spesso è quella del senso di sacrificio e in realtà questa parzializzazione non funziona perché l’atleta, così facendo, rinnega tante altre parti che invece vanno guardate per mantenere il giusto equilibrio.

Quando invece riporta quelle parti nella sua vita, quello che succede di straordinario è che non solo l’atleta continua a ottenere risultati, anche migliori di prima, ma soprattutto che è felice, ritorna a diverstirsi.

Cosa succede in realtà? Lo sportivo ritorna alle motivazioni primarie che lo hanno spinto a sacrificarsi, in un ambito in cui il sacrificio è un mezzo, non una dimensione, per raggiungere uno stato di piena realizzazione.

Possiamo quindi estendere il ragionamento anche al manager, che è spesso inghiottito dalla contemporaneità dei compiti, dal multi tasking, che lo spinge a isolarsi nella sua dimensione del To Do, in cui non riesce nemmeno davvero a concentrarsi, essendo preso dalla scia della cosa appena terminata (una call, un documento), dovendo compiere la cosa da fare al momento, ma essendo preoccupato per la cosa successiva (una presentazione, una riunione). Quanto spazio c’è di soddisfazione in questo loop?

La stessa cosa succede alle neomamme, schiacciate dal senso di inadeguatezza, dalla frenesia di dimostrare di farcela, ai propri genitori, al proprio figlio e, in definitiva, a se stesse.

Lasciarsi schiacciare dalla lista delle cose da fare, dalla spinta verso un’unica dimensione del se’, può creare una situazione in cui, pur raggiungendo l’obiettivo, si arriva a perdere la gioia e la soddisfazione, innescando un profondo stato di frustrazione.

Dimentichiamo la gioia e la soddisfazione per cui abbiamo intrapreso quel lavoro, per cui abbiamo deciso di allenarci per una gara, addirittura per cui abbiamo concepito un bambino.

Non è infrequente e nemmeno una cosa di cui dobbiamo colpevolizzarci, ma la buona notizia è che se ne può uscire.

Un punto di partenza, secondo la Romanazzi, è comprendere che non è la realtà in sé a crearci questo affanno, ma è il significato che diamo a quella realtà. E noi possiamo costantemente scegliere che significato vogliamo dare alle cose che ci accadono, quindi decidere se dare un significato negativo o positivo. Sin da quando siamo piccoli, siamo portati a concentrarci sul problema: basti pensare ai compiti a scuola, nei quali gli insegnanti sottolineano gli errori, non le cose più creative scritte dallo studente. Questo significa che ci dimentichiamo poi quale può essere la soluzione e a trarre forza da essa. La realtà, è vero, non si cambia, il problema resta, ma possiamo decidere quale possa essere la soluzione “per noi”, quella che possa portarci dei regali. Che cosa mi può insegnare tutto questo? Che cosa sta venendo fuori, che da tanto tempo non ascoltavo più? Quali i sogni che ho infilato in un cassetto perché il mondo mi diceva che non erano quelli giusti?

“Permettiamoci di stare nel silenzio”

Nicoletta Romanazzi

In fondo, non è vero che durante i lockdown abbiamo approfittato per fare le cose che non abbiamo mai fatto prima? Cose che abbiamo rimandato? Non abbiamo forse staccato la spina per stare di più e meglio in famiglia?

Non è necessario che sia una condizione imposta, perché è un’esperienza che abbiamo già vissuto in modo estremo. Invece preso a piccole dosi, quel tipo di “silenzio dal mondo esterno” sposta l’asse del nostro focus, placando anche alcuni sensi di colpa verso i figli, la famiglia, la casa.

Ebbene, lo abbiamo imparato, lo abbiamo vissuto e di questa esperienza estrema possiamo fare tesoro, ricavandoci dei piccoli momenti di silenzio, anche solo di un minuto, che possono cambiare l’atteggiamento che abbiamo verso un problema, spingendoci a vedere la nuova soluzione.

La meditazione e il respiro ci vengono incontro in questa pratica quotidiana, innescando quelli che Nicoletta Romanazzi definisce i clic di cambiamento che, una volta scattati, restano nella nostra memoria al servizio di altri momenti.

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