Le paure, quelle nuove e quelle di sempre
L’aptofobia: la pausa del contatto fisico
Ognuno di noi, esattamente un anno fa, ha dovuto imparare a convivere con ogni forma di paura. La prima reazione alla modalità di diffusione dei contagi ha attivato vari livelli di aptofobia. Dal greco apto ἄπτω «toccare» e fobos φόβος «paura», l’aptofobia è una fobia che comporta grande disagio, se non repulsione, verso il contatto fisico. È una paura che esiste da sempre e nemmeno troppo rara, che però negli ultimi tempi ha visto un picco, legato appunto all’infezione da SARS-CoV-2.
Appena ci troviamo in prossimità di un estraneo, che sia in un negozio o in uno spazio limitato, contiamo i metri che ci separano, a garanzia della nostra incolumità. Il rischio è reale, di conseguenza anche la paura.
Per prima volta che questa fobia è stata (e lo è tuttora) sentita così forte, a un livello socialmente diffuso.
Non dimentichiamoci, tuttavia, che se da un lato il contatto è una forma di contagio (tanto che il distanziamento fisico è riconosciuto come uno strumento indispensabile per contrastare il Covid-19), dall’altro è fonte di cura. In un recente articolo della rivista Internazionale, intitolato “Il contatto indispensabile”, Laura Crucianelli scrive:
Il tatto è sottoposto a una sorta di proibizionismo: è un periodo difficile per il più importante dei sensi. La pandemia lo ha reso tabù, insieme alla tosse e agli starnuti in pubblico. Mentre le persone che si ammalano di Covid-19 possono perdere l’olfatto e il gusto, il tatto è il senso che è stato sottratto a quasi tutti noi, positivi o no, sintomatici o no, ricoverati o meno. Il tatto è il senso che ha pagato il prezzo più alto.
La distanza fisica da un lato ci protegge, in quanto rappresenta uno dei vettori del virus, dall’altro ostacola la cura. Una cura non solo fisica, ma spirituale ed emotiva. Pensiamo, ad esempio, all’importanza dell’affetto del personale medico all’interno dei reparti Covid, o alle discussioni riguardanti la vaccinazione per i caregiver (termine anglosassone entrato nell’uso comune e che sta a indicare “chi si prende cura”, a livello familiare o professionale, di anziani e disabili) o, semplicemente, il bisogno di ognuno di poter abbracciare i propri cari. Durante questi ultimi mesi, tante sono le residenze sanitarie assistenziali che si sono organizzate per poter avere una stanza degli abbracci, luoghi appositi e sicuri in cui i familiari possono riuscire ad abbracciare i loro cari.
Fonte SkyTg24. Coronavirus, in Rsa di Castelfranco Veneto la “stanza degli abbracci”
Elisabetta Barbato, direttrice della casa di riposo Domenico Sartor di Castelfranco Veneto, in provincia di Treviso, ha rilasciato un’intervista a Skytg24 e, parlando di una delle “stanze degli abbracci”, ha detto:
“Il mancato contatto fisico e visivo ha causato il declino cognitivo e un regresso comportamentale in molti nostri ospiti. La necessità di poter garantire nuovamente un contatto fisico era fondamentale, dato che niente è più confortevole di un abbraccio: è un gesto empatico, aumenta l’autostima, dà energia e permette al nostro organismo il rilascio di endorfine e di ossitocina. Noi abbiamo sempre ricercato il benessere fisico, mentale ed emotivo dei nostri ospiti e questa struttura rientra in un macro progetto più ampio, che vede un nuovo approccio multidisciplinare sviluppato insieme all’Università di Padova”.
La struttura ideata e realizzata per permettere gli abbracci è stata chiamata “emozioni senza fine“, un nome che ribadisce quanto il tatto sia indispensabile nel mondo emozionale e psicologico di tutti noi.
Rupofobia: la paura dello sporco
Un altro tipo di paura che ha e sta avendo un forte impatto sulla nostra quotidianità è la rupofobia (dal greco ῥύπος, rùpos, «sudiciume»), il timore dello sporco e, in maniera traslata, la paura della contaminazione per contatto, dovuta a ambienti o superfici potenzialmente pericolosi per la nostra salute.
Anche questa è una paura che esiste pressoché da sempre, ma oggi qualcosa è cambiato. Aprire una porta ora non dà la stessa sensazione che ci dava un anno fa: la nostra attenzione si è spostata dall’uscire o dall’entrare in uno spazio (l’ufficio, il negozio sotto casa, la parrucchiera) alle operazioni di igienizzazione delle mani, in una sorta di meccanismo inconscio e automatico di tutela.
Secondo un sondaggio condotto su oltre 2.000 statunitensi dal Wexner Medical Center della Ohio State University, la maggior parte degli americani intervistati crede di continuare ad adottare precauzioni sanitarie anche oltre la fine della pandemia, facendo uso di mascherine, disinfettanti e distanziamento sociale.
Un numero altissimo: quasi tre quarti dei partecipanti all’indagine hanno espresso la volontà di continuare a indossare le mascherine in pubblico anche post pandemia, quattro su cinque hanno dichiarato che eviteranno luoghi affollati, mentre il 90% degli intervistati ha ammesso che non smetterà di lavarsi l emani frequentemente o di ricorrere a disinfettanti e igienizzanti. Tra queste, lavarsi spesso le mani è stato riconosciuto come un modo efficace e preventivo per evitare anche i soliti malanni invernali, tanto che Iahn Gonsenhauser del Wexner Medical Center ha affermato:
«Credo che in molti abbiano capito che alcune abitudini adottate contro il Covid possono essere mantenute per proteggere la salute di tutti».
Agorafobia: terminerà presto?
L’agorafobia, dal greco αγορά, «piazza», e φοβία, «paura», etimologicamente significa «paura della piazza», della folla, è anch’essa una paura che esiste da sempre (si dice che anche Alessandro Manzoni ne soffriva), ma che negli ultimi mesi ha preso piede su larga scala.
Accade che, ogni volta che usciamo di casa, luogo che nella nostra mente rimane un ambiente protetto e sotto il nostro pieno controllo, ci stiamo esponendo a un’ulteriore forma di paura, per l’appunto: l’agorafobia. Quello che in precedenza ci allietava, come vedere tante persone in una piazza, in un parco, nelle vie dello shopping, oggi ci blocca al limite del freezing: in attesa di capire qual è la strategia migliore per evitare la folla, ci immobilizziamo, cercando di uscire anche dall’imbarazzo per quello che proviamo. In alcuni casi arriviamo anche al faint, la finta morte, il distacco dall’esperienza che limita la nostra paura.
Rientriamo allora in casa, ci laviamo le mani e, appena sentiamo un minimo disturbo (uno starnuto o un brivido), entriamo nel panico, perché con la fobia da contagio non siamo mai davvero convinti di essere al sicuro. L’ipocondria ci assale, portando con sé ogni forma di pensiero catastrofico: in questa forma di paura, invece di tendere verso la soluzione positiva, si cerca di evitare quella negativa attraverso il controllo.
Secondo Giulio Cesare Giacobbe, psicologo e psicoterapeuta, proprio questo evitamento, che spinge l’uomo a concentrarsi sulla dimensione negativa di fenomeni come la paura, è il punto di partenza verso forme peggiori e più gravi di fobia ossessiva. Di certo, continueremo a difenderci da questo virus che ha trasformato le nostre vite ma, per alleviare uno stato mentale affaticato come il nostro, non possiamo permetterci di aggiungere alle paure legittime anche quelle inconsistenti.
Bada bene, per inconsistenti non significa che non sono degne di attenzione. Paure come perdere il lavoro, perdere la casa, essere indifesi e diventare poveri sono sempre esistite e la situazione economico-sociale che stiamo vivendo non ha fatto altro che aumentarle.
In nome del nostro benessere psicologico, tuttavia, mentre teniamo alte le difese dal virus, possiamo cercare di dotarci di tutti gli strumenti che servono ad abbattere le paure per cose che – almeno per il momento – non esistono, cercando di allontanare ansie e blocchi incentrati su timori non basati sulla realtà concreta dei fatti e che diventano causa della nostra infelicità.
Fermarci a pensare e a distinguere, pian piano, il mondo reale da quello non reale può essere il punto di partenza di un percorso che giunge al quarto sentiero: quello in cui, secondo Giacobbe, smettiamo di farci le seghe mentali e ci strutturiamo per vivere con forza e coraggio, dando un senso alla nostra esistenza.