I tre concetti chiave del Kintsugi per superare imperfezioni e difficoltà

I tre concetti chiave del Kintsugi per superare imperfezioni e difficoltà

A cura di Life Strategies

Come abbiamo visto in precedente articolo, l’arte del Kintsugi affonda le proprie radici nella filosofia Zen, con un forte richiamo alla visione estetica del Wabi Sabi, non a caso definita da Selene Calloni Williams come “l’arte di vivere le nostre imperfezioni, le nostre mancanze e le nostre fragilità come forza e consapevolezza”.

Partendo dal Wabi Sabi, infatti, possiamo risalire a tre concetti basilari che sono racchiusi nell’arte del Kintsugi: mushin, anitya e mono no aware.

Mushin: lo stato mentale.

Questo termine è composto da due caratteri: uno rappresenta la negazione, l’altro il cuore o la mente. La mente priva di mente ma aperta a tutto, proprio perché non occupata da alcun pensiero.

In italiano può essere tradotto in “senza mente” ed esprime la capacità di lasciare correre, dimenticando le preoccupazioni, liberando la mente dalla ricerca della perfezione.

Sappiamo bene che la nostra mente lavora ad una velocità molto elevata e senza sosta, tanto che è impossibile non pensare, anche quando lo facciamo in maniera inconscia.

Ma i pensieri più di ogni altra cosa sono ciò che possono distorcere la nostra visione della realtà.

Lo stato di mushin non è facile da raggiungere, non è uno stato di rilassamento, bensì meditativo. È richiesto un allenamento di molti anni per poter essere in grado di mantenere una condizione di mushin stabile nel tempo. Una volta raggiunto, siamo in grado di agire e di reagire in ogni situazione, senza alcuna esitazione o alcun disturbo creato dai nostri pensieri, perché ci basiamo solo su ciò che sentiamo istintivamente e non sulla speculazione intellettuale.

Secondo alcuni maestri Zen, il mushin è lo stato in cui una persona capisce finalmente l’inutilità delle tecniche e diventa veramente libera di muoversi.

Solo quando la mente non si sofferma su nulla, allora si comincia davvero ad agire per la prima volta.

Essere capaci di padroneggiare il mushin nella normale quotidianità è proficuo per molti motivi. Se siamo in grado di comprendere realmente la situazione in cui ci troviamo e lasciamo che sia la situazione a controllare le nostre azioni, senza cercare a tutti i costi di avere il controllo su di esse, allora impareremo cosa significa l’arte di interagire con la vita.

Anitya: il cambiamento o il divenire.

Il termine anitya proviene dal sanscrito e può essere tradotto come “impermanenza”, che è uno dei tre aspetti fondamentali dell’esistenza nella dottrina canonica del buddismo, insieme alla sofferenza e il non sé o insostanzialità della persona.

L’esistenza, senza eccezioni, è transitoria, evanescente e incostante: tutte le cose sono destinate alla fine. Solamente accettando tale condizione potremo avere un approccio sereno e consapevole alla vita.

Solo nel momento in cui accettiamo che tutte le cose sono impermanenti, ovvero sono destinate a nascere e finire, allora potremo davvero conoscere la felicità.

Anitya consiste, di fatto, nella capacità di lasciare andare e accettare che le cose non sempre sono esattamente come desideriamo, per quanto difficile possa sembrare, soprattutto all’inizio.

È capitato ad ognuno di noi, almeno una volta nella vita, di chiederci: “Ma perché la mia vita non è esattamente come vorrei? Perché ciò è capitato proprio a me?”.

Comprendere il profondo significato dell’anitya ci consente di cambiare radicalmente le nostre esistenze perché, quando riusciamo a distaccarci dalle cose materiali, le nostre vite iniziano ad assumere un sapore del tutto nuovo e diverso.

Di fronte al cambiamento ci sentiamo spesso spaventati. Gran parte delle sofferenze umane derivano proprio dall’incapacità di saper accettare il cambiamento, il distacco, la fine.

Ma è proprio il cambiamento e la transitorietà delle cose a renderle uniche, esaltandone la bellezza. Riconoscendo che la vita è un inesorabile scorrere di avvenimenti, fatti di inizi e di conclusioni, si aprono per noi delle opportunità inedite e inattese.

Mono no aware: il racconto.

È dato dall’unione di due parole: mono, che in giapponese significa “cosa”, e aware, che in origine indicava una semplice esclamazione di stupore riferita ad un oggetto naturale, come ad esempio la luna o un albero in fiore.

L’espressione completa, quindi, si prestava ad una vasta gamma di significati, a seconda del contesto e dell’occasione in cui veniva usata: emozione, malinconia, ammirazione, turbamento d’animo.

Si tratta di un’empatia verso gli oggetti, che allo stesso tempo è anche una malinconia triste e profonda per le cose: solo apprezzandone la decadenza si arriva ad ammirarne la bellezza.

Mono no aware è un concetto estetico giapponese che esprime un forte senso di partecipazione di fronte alla bellezza della natura e della vita umana, accompagnato, però, da una sensazione costante di nostalgia legata al fatto che tale bellezza non è perenne, ma muta e si evolve incessantemente.

In italiano, il corrispettivo più frequentemente usato è “sensibilità delle cose” o “partecipazione emotiva alle cose”. Mono no aware significa, ad esempio, percepire l’incanto e la bellezza di un bel tramonto, ma con la consapevolezza che si tratta di qualcosa che avrà presto una fine. Di fronte ad una scena così meravigliosa, quindi, all’ammirazione e alla commozione si accompagna anche un senso di disincanto, privo sia d’amarezza che di trasporto.   

Ogni attimo della nostra vita può essere un nuovo mono no aware. La transitorietà delle cose, il cambiamento, non devono essere vissuti con angoscia, ma, al contrario, ci invitano a godere del presente e di ogni attimo di autentica bellezza.

Invece di affannarci nel tentativo di opporci allo scorrere della vita, cerchiamo di adattarci al flusso degli eventi, perché è il primo passo per apprezzare il nostro presente.

Analizzando questi tre concetti chiave, emerge quanto il Kintsugi possa essere considerata una metafora profonda della nostra capacità innata di superare le difficoltà, anche se apparentemente insormontabili, e di rendere preziosa la relazione con noi stessi, con gli altri, con la natura e con le cose che ci sono care.

Invece che lamentarci di quanto ci è accaduto, riparare le ferite attraverso l’uso dell’oro è il modo migliore per abbellire le nostre esistenze e renderle ancora più degne di essere vissute fino in fondo.

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