Paura di qualsiasi cosa
Un uomo ha una paura del vento talmente forte da essere terrorizzato anche dalla corrente d’aria provocata da una finestra aperta. Vive costantemente in un luogo chiuso in modo “ermetico”.
Una persona ha paura degli angoli. Per evitare, in qualunque stanza si trovi, di andare nel panico, indossa sempre lenti deformanti, che sono in grado di curvare la percezione visiva di qualsiasi spigolo.
Una donna è tormentata da un’ossessione: quella di rubare i tappi delle bottiglie con cui circondare la propria abitazione per proteggere la casa da sostanze contaminanti.
Questi sono solo alcuni dei casi reali che il professor Giorgio Nardone ha incontrato durante la sua ultratrentennale esperienza di studio e trattamento dei disturbi fobico-ossessivi. “Nemmeno la più fervida immaginazione rende merito alla realtà”, scrive il professore: sì, perché, se c’è una cosa che sappiamo delle fobie è che la mente umana è in grado di costruire una paura patologica su qualsiasi cosa. La paura patologica è “in assoluto la più creativa”, dice Nardone, perché “esistono tante paure quante se ne possono inventare”.
Proprio questa caratteristica “creativa” della paura non la rende oggetto di attenzione come meriterebbe. Forse il dolore e la rabbia sono emozioni che vengono universalmente più accettate e capite? È più semplice provare empatia nei confronti di qualcuno che è arrabbiato o triste rispetto a chi, magari, ha la fobia degli spigoli delle abitazioni? Domande come queste ci dovrebbero far riflettere.
La paura: un’emozione al futuro
Un altro aspetto da aggiungere a questa analisi è sicuramente il fattore temporale. Chi soffre di attacchi di panico, dice Nardone, ha paura non per qualcosa che è accaduto, ma di ciò che potrebbe accadere.
“La fobia influenza azioni e pensieri riguardanti il futuro, piuttosto che il passato.”
Chi ha fobie, purtroppo, ha vissuto sulla propria pelle la spiacevole sensazione di essere deriso o comunque ha assistito alla minimizzazione del suo problema. In altre parole, almeno una volta nella sua vita, ha sentito pronunciare frasi quali:
«Non è niente!»
«Non è mica così grave, non è una malattia fisica!»
«È solo nella tua mente, non esiste.»
«Non può essere così difficile gestirlo, ti costruisci tutto da solo.»
«È solo una tua paura.»
C’è un bellissimo passo nell’ultimo libro di Harry Potter che sintetizza questo tema:
“Certo che sta succedendo dentro la tua testa, Harry.
Ma perché diavolo dovrebbe voler dire che non è vero?”
Così vale per la fobia. Il buonsenso popolare non tiene conto di una cosa fondamentale e decisiva: un male immaginario è terribile esattamente quanto uno reale e può diventare, nei suoi effetti, più reale di qualunque realtà.
Se accade solo nella mente, per quale motivo non dovrebbe essere “reale”? Gli effetti provocati da una paura patologica, dall’attacco di panico alle strategie che la persona mette a punto per evitarlo, sono concreti.
Bisogna parlare dell’importanza della salute mentale. Questo è il primo passo per non banalizzare i problemi altrui, anche quando ci sembrano assurdi o, peggio ancora, non così degni d’attenzione, per i motivi che abbiamo elencato all’inizio dell’articolo. Molti di noi sono stati colpiti dalla recente vicenda che ha interessato Simone Biles e di cui abbiamo scelto di parlare in un nostro recente post.
«Io dico di mettere al primo posto la salute mentale, perché se non lo fai, non ti godrai lo sport e non avrai successo quanto vorresti. A volte va bene anche saltare le grandi competizioni per concentrarsi su se stessi e mostrare quanto si è forti come persone e non soltanto come atleti. […] Non mi sono infortunata, si tratta solo di una ferita al mio orgoglio. Devo concentrarmi sulla mia salute mentale. Dobbiamo proteggere la nostra mente e il nostro corpo e non sentirci obbligati a uscire e fare ciò che il mondo vuole che noi facciamo».
Queste le parole che la campionessa ha scelto per comunicare al mondo la sua decisione di ritirarsi dalle Olimpiadi di Tokyo 2020. Una decisione che di certo non sarà stata semplice, così come non è stato semplice, né scontato, aver condiviso i veri motivi che l’hanno portata a fare questa scelta. In una società purtroppo così abituata a sottostimare l’importanza della salute mentale e ad etichettare negativamente chi parla di disagio psicologico, la campionessa ha affrontato l’argomento con trasparenza e umanità, senza nessun tipo di tabù.
Di fronte alla tensione emotiva e psicologica, infatti, ha scelto di non voltare le spalle alle sue emozioni, comunicando al contrario la volontà di mettere al primo posto il proprio benessere mentale e di ascoltare i segnali della fragilità dell’animo. E può darsi che il coraggio di Simone, che tanto ci ha stupito, risieda soprattutto in questo: nell’aver mostrato, anziché camuffato, quella fragilità tanto scomoda ai canoni di perfezione che il mondo, compreso quello delle Olimpiadi, ci richiede quotidianamente.
La mentalità e il benessere mentale non sono accessori che possiamo decidere se portare con noi o meno: Simone Biles l’ha capito e con il suo gesto ha compiuto un’impresa leggendaria al pari delle sue memorabili sfide alle leggi della gravità.
Il panico: la forma estrema della paura
Dopo questa premessa, scendiamo in profondità e cerchiamo di conoscere più da vicino il panico che, in quanto reazione psico-fisiologica, altro non è che la forma estrema della paura. Se la paura “è una forma di percezione, il panico è una reazione”. Le forme di disturbo fobico rientrano principalmente, afferma Nardone, all’interno di due categorie:
- Le patologie che prendono forma attraverso l’attacco di panico;
- Le patologie in cui il disturbo si esprime attraverso ciò che la persona fa o non fa per evitare di cadere nel panico.
Nel primo caso, la persona in questione sperimenta in modo frequente la reazione di panico. Non importa in seguito a cosa, se di fronte a situazioni che erano imprevedibili o meno, l’individuo che va in panico prova questa sequenza, per molti conosciuta: sensazione di sudorazione delle mani, battito cardiaco accelerato, aumento della pressione sanguigna e una scarica di adrenalina. Di fronte a tutto ciò, l’individuo cerca di mantenere il controllo ma, accorgendosi di non riuscirci, viene travolto dalla paura fino all’estrema reazione di panico. C’è poi da sottolineare che, nel momento in cui il cervello attiva il dispositivo di emergenza (l’amigdala, che ha permesso all’umanità di sopravvivere fino ad oggi), tutto questo avviene prima che la mente stessa se ne renda effettivamente conto.
“Prima di sapere perché hai paura, hai paura”.
Spesso rientra nella seconda categoria anche chi non ha nemmeno mai avuto attacchi di panico, ma passa la vita ad evitarli. Per non cadere in quella che avverte inesorabilmente come una minaccia (il panico per l’appunto) mette in campo copioni, di azioni e di pensiero, che sono altrettanto patologici e invalidanti. In questo caso la persona evita, evita costantemente qualsiasi cosa, luogo o situazione che non la faccia sentire “al sicuro”, “imprigionandosi così in una gabbia protettiva”. Nardone usa il termine “gabbia” non a caso: l’evitamento, come abbiamo visto in altri articoli, è solo un falso rimedio alla paura e sono tante le persone che si costruiscono un recinto di sicurezza, in cui non fanno entrare ciò che le spaventa, allontanando così, inevitabilmente, anche le cose positive. Basti pensare a chi non viaggia per paura dell’aereo, a chi non riesce a ottenere una promozione per la paura di parlare in pubblico, a chi si chiude completamente in se stesso in un vortice di ansie, rituali scaramantici, rinunce e limitazioni.
“Nel primo caso ciò che rende la persona invalidata è l’attacco di panico, nel secondo è la strategia adottata per evitarlo.”
È chiaro che nessuna delle due categorie sia più augurabile rispetto all’altra. Nardone suggerisce una certa sequenzialità delle due forme appena descritte: solitamente, all’inizio della patologia si possono osservare episodi critici di panico, poi può avvenire un’alternanza delle due, per poi assistere allo stabilizzarsi della seconda. “I veterani della paura”, come li chiama il professore, sono proprio coloro che non cedono così spesso agli attacchi di panico, ma che limitano la propria esistenza e finiscono col costruirsi una trappola forse peggiore del panico stesso.
“Si può quindi assumere che la patologia, nella sua persistenza prolungata, conduce la persona ad adattarsi alla situazione attraverso limitazioni e rinunce, volte a proteggerla dall’eventualità dell’attacco di panico. Si tratta della invalidante paura della paura.”
Gestione delle emozioni: dalla paura, al dolore, alla rabbia
Per concludere l’articolo con un po’ di sano ottimismo, se è vero che, da un lato, come esseri umani siamo bravi a costruirci paure basate praticamente su qualsiasi cosa, possiamo essere altrettanto capaci di trovare soluzioni. In altre parole, secondo Nardone, a quest’abilità tutta umana fortunatamente ne corrisponde una, altrettanto forte, di trasformare i limiti in risorse.
La differenza chi la fa? La strategia che scegliamo di adottare. Conoscere le emozioni è il primo passo per riuscire a gestirle, in modo da generare quelle esperienze emozionali correttive che sono in grado di modificare il modo di percepire la realtà e comprendere il senso di alcuni paradossi della nostra vita. Di questo parleremo in occasione del suo prossimo corso (lo puoi scoprire cliccando qui), interamente incentrato sulla gestione delle emozioni.
La lezione di cui si fa portavoce lo psicologo, di cui è prova tangibile la sua stessa carriera professionale (la sua esperienza con migliaia di casi di panico, tra i quali molti pazienti con forme clinicamente dichiarate “inguaribili”, insieme agli straordinari risultati ottenuti con la Terapia Breve Strategica) è questa: gli esseri umani sono capaci di realizzare cambiamenti straordinari.